Agli amatori delle mie acqueforti

di Luigi Bartolini

Urtato contro tutti e contro tutto non ho voglia di scrivere la paginetta che altre volte scrivevo in occasione di esposizioni di mie acqueforti.  Paginette dove fumavano i miei umori simili a bestie che si riposano dopo la fatica. Il paragone a bestie non è affatto offensivo, riferito ai miei umori, per il semplice fatto che io stimo di più le bestie che non gli uomini.
E da stasera, e da poche ore fa, il mio piacere che è consistito nello stare a guardare come un branco di tacchini, su per la collina, si difendevano dallo assalto del mio cane Liebe.  Si difendevano più superbi di me, a botte di ala, a starnazzamenti di coda, a saettanti ruote: molto meglio di me che non ho più nemmeno la voglia di difendermi. E, inoltre, non ho mai visto animale andare con armi contro altro animale: bensì vanno disarmati, ciascuno con le sue proprie forze assalta: o se fan numero o se fan gregge o stuolo non però stanno in gregge e stuolo per altro che per accorta difesa, mai per offesa come fanno gli uomini gli uni contro gli altri.
Inoltre io non sono II solito artista più o meno fesso, più o meno primitivo, con la riga nera al collo e il cerume nelle orecchie: io ho parecchie camere piene di libri a casa mia e non più tardi di ieri a notte leggevo le carte che furono trovate in casa di Robespierre dopo morto: delazioni di spie, informazioni di confidenti, commissari del popolo che incarceravano gli aristocratici, tagliavan loro la testa:  il tutto allo scopo di impossessarsi dei beni della nobiltà, ma in nome di quello che allora si chiamava patriottismo giacobino. In sostanza dei fatti io non credo più niente di quello che è uomo, umanità. AI più posso credere a una ragazza: ma perciò rimando i leggitori al mio libro Passeggiata con la ragazza (Fig. 1), libro scritto, ripeto, quando questo senso di vomito, questo sgomento contro tutti e contro tutto non mi avevano presa di assalto.

Come faccio allora io per resistere a un assalto vero, continuato, lungo e che terminerà col silenzio della mia morte?
Se non fosse stata la mia passione per le acqueforti, io, un bel giorno, insieme col mio cane Liebe me ne sarei andato a caccia per le rive del Chienti e laggiù, fra i colossali alberi, avrei finto di essere caduto e che il fucile mi si fosse sparato per disgrazia. Quindi me ne sarei andato tranquillamente all’altro mondo.
Invece un amore così sorregge ancora, ed è la passione per le mie acqueforti.
Parliamo, allora, di loro.
Sappia chi non lo sa e desidera saperlo, che io sono stato quest'inverno ultimo premiato a Firenze; inoltre le mie acqueforti (cioè quelle che ho incise prima del 1930, che quelle esposte qui sono quasi tutte inedite ossia qui esposte al pubblico per le prima volta) figurano nelle maggiori collezioni italiane e in molte straniere. Molto ho venduto a privati, meno a Gallerie nazionali ed estere, o ad enti pubblici, inquantoché io sono di natura, diciamola alfieriana, e cioè non ho mai voluto inchinarmi ad alcuno.
Nessuno, e qui calchiamo la penna, mi ha mai visto stendere la mano e nemmeno chiedere. Il mio commercio è stato genuino: mi ha comprato quelli al quale piacevo, senza lenocinio e senza sforzo.
Ma non è questo che volevo dire. Il cappello cinese è, anzi, stato per il pubblico. Per i buoni amatori non farò lunghe chiacchere. Per me la critica d'arte le esegesi le palinodie non contan nulla. La critica favorevole si ottiene avendo amici: ossia coltivandoseli, lisciandoli, cullandoli di lodi ecc. ecc.
Io, invece, ho sfottuti tutti quanti. Così come io sono scomunicato per uno schiaffo che tempo fa diedi a un prete in chiesa, e come ho perduto, per essermi rifiutato di ricevere in casa mia i padrini di S. V. (non si tratta delle signorie vostre ma d'un cafone qualunque, d’un ignobile provocatore legale) dicevo: ho perduto i gradi di ufficiale, le decorazioni al valore guadagnate sul Carso e sul Piave, medesimamente sono un proscritto, un bandito dalle colonne della ufficiale semiseria graveolente critica d'arte e di tutto ciò mi compiaccio meco stesso.
Gli amatori di buone acqueforti sono, però, persone di solito molto intelligenti: e сioè capaci di porsi dal mio punto di vista che, oserei dire, è quello dell'angelo. Persone molto intelligenti, e io ho sempre amato gli amatori di stampe. Essi mi hanno quasi completamente capito e capiscono le ragioni del mio amore per un topolino morto, per le Farfalle imbalsamate nei vetrini dei musei (Fig. 2), per le efelidi, per le Conchiglie (Fig. 3 - 4) e per le altre cose dove altri vedono nulla, ma dove io vedo come uno specchio della mia rinuncia al mondo pesante, dorato, senza rancore.
Estasi raccolte, estasi limitate ad oggetti minimi; ed allora sortono fuori dalla mia punta immagini formate chiare e profonde che superano per intensità la osservazione fotografica. Siamo, a proposito, sempre lì: al senza anima e al con l'anima.
La somma di tutti i problemi dell’arte e il senza anima o con l’anima. Disanimato, l’artista può, mediante regole, raggiungere apparenze eguali al frigido vero; animato l’artista crea, fa un ritratto della sua anima, sia pure quando incide un topolino morto.
Quel che è difficile è di, operando, aver dell'anima e possedere la virtù di saper fare. Vero è che in quest'ultimi cinquanta anni abbiamo visto il campo nettamente diviso in artisti tutto mestiere e artisti tutto fumo ideale, ma per mio conto io me ne infischio (come dicevo dapprincipio) di tutti e di tutto e prendo dall'antico e dal nuovo, ovunque trovo cosa che faccia per me. Ne risulta un'arte, dicono i miei amici, originale e sincera. Ed io torno a ripetere che è importante conoscere l’artista per spiegare l’opera e trovarla, facilmente, originale e profonda.
E, in altre mie lastre, quelle che vado a disegnare fuori, lontano, chissà dove, non c'è di sistematico, di mestiere per il mestiere, assolutamente nulla. Per esempio l’acquaforte «Paese dell'interno dell'isola» può assomigliare, così filiforme com'è, ai migliori maestri orientali, ma la assomiglianza è per caso, non da me voluta, e per giuoco plastico. Quella mattina quando la disegnai io non pensai minimamente ai maestri orientali, ma per il carattere del paesaggio e lo stato del mio animo che coincisero evidentemente con quel paesaggio e quello stato d'animo d'un orientale. Non gioco, non mi diverto a sortire da me stesso: e quindi posso affermare, con coscienza, la unità della mia opera. Soltanto che, essendo la mia natura complessa, detta unità può anche non apparire a un critico miope come il Vittorini di Firenze, il quale preferì a me il mio caro amico Morandi, al quale Morandi sono stato proprio io quello che ha tessuto le più fondate lodi.
L'unità di Morandi appare più distinta della mia, ma è anche veroche egli è un po’ monotono ossia allo antipodo dello insegnamento leonardesco: Leonardo, che non soltanto non si ripeteva ma non terminava quelle opere delle quali, mentre lavorava, aveva intravisto comein ultimo sarebbero sortite fuori.
Certo e che le mie acqueforti del genere panico ebbro furente non si incidono colla pazienza, e che mi costano sangue, sudori, tensione nervosa, camminate pei solleoni e il polverone, abbattimenti, riprese e tempeste.
Io ho combattuto sul Carso e sul Piave: mi sembra che costi più un'acquaforte che una battaglia: ossia che sia più tempestoso incidere una buona acquaforte, che partecipare a un'azione di guerra. In guerra basta aver coraggio e qui ci vuole coraggio e genio. Sfido tutti i sedentari della pittura a fare come me: correre giorni intieri forsennatamente dietro a un sogno che si o no al terzo giorno riesco a ritrovare e a fermare sulla lastra mediante linee che sembrano tremolii guizzi di un sismografo: che sembrano un linguaggio telegrafico ma nel quale gli amatori sanno che non è discaro mettersi a leggere.

Da Il Milione, Bollettino della Galleria del Milione, n. 4
Milano, dicembre 1932.