Ragionamento sopra le mie acqueforti

di Luigi Bartolini

Scrisse bene Cecchi quando, a proposito delle mie acqueforti disse che «per farle ci voleva, a questi lumi di luna, o un santo come Morandi o un matto come Bartolini». Matti, del resto, siamo tutti ed anche Cecchi giacché neppure lui fa il filisteo o il venditore di fusaglie. Ma egli voleva soltanto dire che le acqueforti rendono nulla dal lato del denaro; e non vi comprendeva — naturalmente — la serqua degli acquafortai, l'acquafortume e l'acquaforteria: ossia i burini dell'acquaforte: da tanto, burini, da riuscire a screditare tale nobile arte. Arte che è, invece, riservatissima; da lasciarsi ai soli che possiedono il doppio dono d'essere e originali disegnatori e poeti non da burla e d'accatto. L'acquaforte costituisce, sì, anche un certo tal qual mestiere: irto di difficoltà tecniche; ma sono difficoltà che l'artista supera di volo; per forza — o per febbre — d'ispirazione. Viceversa non è un genere redditizio di denaro. Nemmeno ai tempi di Rembrandt, e neppure per lui, l'acquaforte costituì una sorgente di denaro. Negli ultimi anni della sua carriera di «nottiluco stellare» i rami gli vennero sequestrati dai calderai d'Anversa; che li «utilizzarono» quali fondi di caldai. A Callot, l'acquaforte costò, più della camicia, la pelle: per avvelenamento cagionatogli dall'orripilante acido nitrico. L' incisore Tempesta, s'ammazzò: per disperazione materiale, ossia perché i rami incisi non gli fruttavano quanto gli erano costati. Per incidere acqueforti s'era ridotto nella più squallida miseria.
Fare acqueforti è dunque — corollario — come scrivere poesie: tutto fumo, amor di gloria spirituale; niente arrosto: e neppure il risarcimento delle spese materiali. Frutta (lo ripeto ancora una volta), (e perché giovi a taluni importuni orecchi) soltanto a chi fa il genere «acquaforte decorativa», «acquaforte borghese». Genere servitoresco che mai mi è appartenuto. Frutta anche a chi s'adatti ad incidere vedutine (tratte, più o meno, dalle foto); o a chi s'adatti ad incidere piccoli frontespizi, piccoli ex libris, biglietti da visita o ché. Ma le mie acqueforti non potranno mai piacere che ai poeti, agli artisti, ai nobili d'animo e di temperamento: vale a dire a quante persone? Se piacessero alle comuni teste di cavolfiore, io, oggi, potrei essere ricco.
Cosa volete che fruttino la mia «Quercia bella», o i miei «Colibrì», o i miei «Scarabei», le «Efelidi», i «Topolini», le «Fonti di campagna»? Fonte Canapina, Fonte Maggiore, Fonte San Giorgio, Fonte San Gennaro: le care, le lunghe, le giornaliere, picaresche, falliche, itifalliche, piupesche mie passeggiate solitarie non sempre solitarie — per i campi. Aria tire-lire, catachiaro. Débauche spirituale. Infischiarsene del mondo che sa apprezzare soltanto i giocatori di calcio. O che sa andare soltanto al cinematografo. Me ne infischiavo di tale mondo quando andavo, col mio nobile paltone, avendo nella tasca di destra la fetta erta di lonza o di salsiccia marchigiana, e, nella sacca di sinistra, una sottilissima lastra di rame preparata a cera; buona per incidere direttamente dal vero. (Gli altri incisori — al contrario di me — incidono non facendo calcoli spirituali; ma facendo calcoli renali nelle quattro pareti del loro piccolo studio). Costoro ruminano la loro tecnica a freddo: o magari la traggono da me, imitandomi: tantoché disse bene, anni or sono, un critico quando affermò che da ogni mia acquaforte può nascere un acquafortista. lo, invece, ho sempre arrischiato e sono stato originale al cento per cento.


Dicono — fra le altre cose — che abbia compiuto miracoli di tecnica. E questo può anche darsi. L'acquaforte delle «farfalle imbalsamate nei vetrini del museo» lo dimostra. Ma non si trattò mai di tecnica che risultasse fine a se stessa: si trattò d'ispirazione che guidò la funambolica mano. Dell'acquaforte delle «Farfalle» esistono, intanto, non più di tre esemplari; nessuno dei quali è perfetto. Il migliore è, ancora oggi, nelle mie mani...
...Intanto diamo un'occhiata a quello che ho già compiuto. Ed a questo punto confesso che vorrei servirmi, per presentare le mie acqueforti, di meno parole possibili. Sono acqueforti che parlano da sole: a chi sa leggerle. Vanno sapute leggere adagio giacché non danno un pugno nell'occhio: come ve lo dà tanta pseudo-arte contemporanea, manipolata per stupire lì per lì: ma che non lascia traccia di lungo solco. Per chi non capisce le mie acqueforti da sé, imbastire trappole di molte parole per spiegarle non è cosa degna di me. E, d'altra parte, è anche vero che le mie acqueforti hanno una ristretta, ma nobile cerchia d'estimatori. Coloro che mi stimano sono artisti, scrittori, poeti, giornalisti. Persone alle quali feci, col dono delle mie acqueforti, dono della mia amicizia. Andate in casa di Govoni e troverete le mie acqueforti. Andate, viceversa, da Malaparte e ne troverete altre. L'elenco risulterebbe, però, lungo e riuscirebbe parziale. Gli stessi miei nemici possiedono le mie acqueforti (e le tengono appese alle pareti delle loro case; né se ne disfanno: e mentre dicono che sono un pessimo uomo, soggiungono che «però io feci loro dono d'una acquaforte»: come a dire che, però, mi stimano. Ossia che in fondo io sono più generoso della loro maldicenza od invidia). Altri mi sono ancora grati per antichi doni ed affermano che sono un incisore forse il migliore che oggi esista in Italia. Però nella cara Italia, una volta così ricca di persone intelligenti, ancora io non ho trovato un editore che abbia capito quanto sarebbe charmant impresa pubblicare i miei racconti, e le mie poesie, illustrate da me, con le mie acqueforti.
Voglio dare anche altre spiegazioni. Povero come sono non ho mai chiesto nulla ad alcuno, né da alcun riccone ho ricevuto benefici di premi. (Né era giusto che ne avessi ambito da parte di tali persone, da me mai stimate, né riverite). Invidie, risentimenti, vendette — notissime imperversano contro di me; ma furono comunissime, del resto, anche agli artisti del passato. Diffidare, intanto, degli acquafortai elegantemente pazienti e scemi o troppo favoriti dai critici e troppo pubblicati, troppo premiati, troppo lodati. D'altra parte, ecco quale è la vera spiegazione, origine e ragione delle mie acqueforti: per i campi, al sole, io non facevo soltanto il celeste arcade delle muse. Qualche volta mi accoppiavo con bellissime ragazze (come sta scritto nell'antico mio libro della «Passeggiata» e come sta anche scritto nel recentissimo libro Il mezzano Alipio). Ma, altre volte, invece d'accoppiarmi con ragazze mi prendeva il solo, l'unico, l'eterno amore: quello per tutte le cose create: anche se cose all'apparenza da nulla: efelidi, scarabei, farfalle.
Andando in cerca d'ispirazione m'occorreva un motivo per camminare liberamente lungo le rive dei fiumi, o per sdraiarmi sopra le erbe, o per dormire nei profondi boschi silenziosi, o per mangiare frutta, insieme agli uccelli. Tutto ciò costituì più d'un semplice e comune motivo: era un modo d'adorazione. Provai immensa gioia nell'adorare il mio Iddio e nel seguire la sua volontà. In essa ravvisai l'istesso mio capriccio.
Girovagando, trovai amore dove molti poveri di risorse spirituali trovano nulla. Trovai, ed insistetti. Tornai a cercare e tornerò ancora. Conobbi momenti d'alta, ineffabile, ebbrezza panica; e d'una quasi lucidità angelica. Fu cosi che incisi le migliori acqueforti. Altre acqueforti non mi riuscirono bene: ma neppure esse suonarono mai la trombetta accademica, né bararono. Io non feci mai l'addormentatrice calzetta, né mai m'accontentai d'eleganze tonali; né mai perdetti tempo a giocar di pazienza per stupire — mediante certosinità elegantoidi ed accademiche — il pretenzioso (ma sciocco) salotto.

Le mie acqueforti trovarono e trovano la loro ragione d'essere nel fermare e nell'approfondire visioni. Io quando incido vedo le cose angelicarsi: e dopo che sono stato due o tre, e talvolta anche dieci ore, ad accendermi, esaltarmi, direi a battermi come un cavaliere di ventura, disegnando, sulla lastra, a piena grand'aria, gli occhi mi si abbacinano. Entro in trance. Mi tremano le vene come a chi compie atto d'amore con donna che ama. E mentre odo, in me, il sangue che ruscella, riluce intorno a me la speranza umana della santa pace. (Speranza perduta da parte dei cittadini delle grandi metropoli). Tutto è chiaro nell'ora del mio Iddio! Ed è il bene di Lui che diventa mia gioia. E' la Sua grazia che io ricevo come un viatico: un viatico con cui riesco a sopportare, schivare, superare i mali inerenti alla comune quotidiana esistenza. La grazia d'Iddio mi remunera di talune mie sconfitte umane. E sempre m'impedisce di prendere sul serio per esempio un Gastaldi, un Fiorentino, un Travaso delle Idee.
E' la grazia della mia arte che mi rimunera di quanto io perdo a contatto della volgarità umana. Volgarità umana alla quale mai ho — ripeto — appartenuto, anche se, per fatale illusione, qualche volta mi ci sono ficcato framezzo. Non parliamo poi dei querelisti e delle quereliste: per non trattare con costoro io preferirò sempre prendermi il torto.
Parliamo d'altro: quando mi trovo in condizione d'ispirazione cambio le parole in linee, o le linee in parole; quasi inavvertitamente trascorro dall'un mezzo all'altro. Per me scrivere è eguale a dipingere, incidere, disegnare.
Credo finalmente giusto dare certezza ai collezionisti del grado di rarità delle mie acqueforti. Venne detto, è stato detto, e si continuerà a mentire, affermando che io traggo, da ciascuna delle lastre incise all'acquaforte, un numero esagerato (incontrollato) d'esemplari. Ciò è falso. Ciò venne detto — come si dicono tante cose false contro di me — da parte d'invidiosi. La tiratura normale degli incisori francesi è di duecento esemplari per ogni lastra; la mia è — invece, normalmente — di soli sei esemplari. Aprano bene il buco delle orecchie coloro che null'altro hanno da dire contro le mie acqueforti se non il ripetere la fandonia «dei tantissimi esemplari». Nessuno ha mai, quanto me, tratto dalle lastre un numero più limitato di esemplari. Tanto ciò è vero che su mille acqueforti da me incise circa ottocento risultano esemplari unici. Soltanto da una trentina di lastre trassi un numero d'esemplari che, però, non fu mai superiore ai trenta. E solo da pochissime altre trassi un massimo di cinquanta esemplari. Cosicché i collezionisti che credono, possedendo le mie acqueforti, di possedere esemplari di illimitata tiratura invece non sanno che possiedono degli esemplari rarissimi. Ho precisamente voluto fare stampare — nel dicembre 1951 — un Catalogo, ragionato, di quasi tutte le acqueforti da me incise — meno le smarrite — perché i collezionisti possano consultarlo e persuadersi che ogni mia acquaforte costituisce, oggi, un esemplare o unico o raro. 


(Ragionamento sopra le mie acqueforti è la presentazione, pubblicata in catalogo, della mostra di acqueforti di Luigi Bartolini che la Galleria Don Chisciotte di Roma ha tenuto nel giugno 1975. Si tratta di un estratto dell’articolo Presentazione delle mie acqueforti pubblicato sulla rivista Emporium di Bergamo nel dicembre 1940).