Capitolo dedicato alle mie acqueforti di genere "biondo"

di Luigi Bartolini

Noi siamo - tutti - macchine parlanti. Macchine ad umori: sì che, quando fa tempo nuvolo, s'incontrano, lungo i marciapiedi, alla pedana dei tranvai, agli sportelli degli uffici, al banco dei negozi, quasi per ogni dove, volti ammusati. Volti ammusati meno quello di chi, solitario, ami, quanto Cézanne, il tempo nuvolo. Si sa, di Cézanne, che dipingeva soltanto quando era tale tempo. Vi sono (né son pochi) giorni uggiosi. Giorni in cui tutti si urtano, tutti stando inquieti a cagione del tempo, rispondono con garbo cosi cosi: se non addirittura con sgarberia. Invece, quando fa tempo buono — tutti, o quasi tutti — sorridono. Gentile si fa anche il tranviere romano che non grida più, ai passeggeri della carrozza di tutti, «si facciano avanti, signori», «vadano un poco più avanti», «andate avanti, vi dico!»; e come se, noi poveri bisognosi di andare in tranvai, fossimo, presso a poco, greggi di pecore, da sospingere a viva voce; oppure sardelle da pigiare nel barile del tranvai.
Né, quando fa tempo buono, i pizzardoni romani elevano contravvenzioni, a josa, a garganella, all'inesperto od incauto, disattento ciclista fra il dedalaio dei dischi rossi a banda bianca e che indicano il "vietato passaggio". La gente, quando fa tempo buono, tende non soltanto al sorriso, ma alla longanimità del perdono. Credo che anche i giudici dei tribunali si lascino influenzare dal tempo buono. Comunque, ormai che sarà primavera mi eclisserò da metropoli. M'alzerò, dal giaciglio, innanzi l'alba, alle mie solite cinque ore; e prenderò per i campi. Prenderò per i campi con il mio solito bagaglio leggero, leggerissimo. Una buona bicicletta, una cartellina per disegnare, una lastra dentro la cartellina, un taccuino per segnare ciò che mi passerà per la mente. Nonché — ma nessuno, udendomi ne inorridisca - andrò con l'antica salsiccia marchegiana di fegato, pinoli ed uva passa. Manipolano nell'Umbria, nelle Marche, da quel di Foligno, a quel di Fabriano, ed in ispecie fra le montagne di Visso o di Norcia, isquisitissime salsicce; né paragonabili a quelle dette "da cacciatori"; né alle altre che vidi manipolare in paesi stranieri: viscide salsiccine color mattone, insipide troppo. La salsiccia marchegiana allappa al palato e vi si mangia molto pane. Vino ne troverò in qualsiasi osteria sparsa intorno Roma. E, superata come avrò la periferia nell'Urbe, trovandomi o per la lunga strada che mena a Prima Porta, o lungo l'altra, assai bella, che mena a Castelnuovo di Porto, girerò per le strade di campagna. Verrò, spesso, a ritrovarmi intorno alla quadrata magione dei Conti Castelli. Conosco quegli irti rami d'oro, quelle fulve querce, quelle ore da cacciatore: quando il sole sorge bianco e velato e sembra non aver voglia di fugare il grigiore della caligine mattutina. Conosco, intorno al Castello, i viottoli stillanti ed il nero merlo che, spaurito, fischieggia rapidissimo rientrando nel baccalloro prediletto.

Non vi disturberò, cari uccelli. E tanto meno disturberò te, con i miei passi, pettirosso, che rechi, al vento, suono simile a quello di due pezzi d'argento percossi insieme. Voi, uccelli, mi sarete, come sempre, veramente amici. Né è possibile litigare con voi. A voi nulla è da rimproverare. Rappresentate l'alta innocenza sfuggita al consorzio degli umani. Voi si che veramente vivete! Voi si che siete liberi! Vi veste Iddio di piumaggio incantevole: si che la più bella veste d'indossatrice decade, non conta più nulla al paragone della vostra. Nessuna veste, sia di principe o ché, è paragonabile alla vostra naturale, aderente al vostro corpo e che lo modella, o, meglio, lo modula, lo accarezza, lo rende di forma agile e preziosa. E voi, mandorli; sciupati non dal vento o dalle brine di marzo; ma soltanto dai poetini. E voi bianche aureole d'altri alberi in fiore, nel cupo sfondo (viola) delle colline. E voi, edere a forma di cuore. Pendule erbe abbarbicate ai querciuoli piranesiani. E te, capelvenere dal nerissimo stelo, lucidissimo crine. Capelvenere che ammanti e decori le logge delle archeggiate piccole rustiche fontane. E voi, lavandaie angeliche: solitarie alle solitarie fontane. Il vostro piede è scalzo o poggia, rosato, su erti zoccoli di salcio o di sicomoro. E voi, graniture ad uncini nani, verdi steli: su cui scorre Primavera ed il suo vento carezzevole. E un vento che pone brividi nelle vene. Te, ampia terra, ondeggi, tutta verde sino all'orizzonte. Non scerberete, o scerbatrici chine sopra i giovani solchi, le nascenti arricciolate foglie dei papaveri. Lascerete che un poco di vermiglio sbocci - domani — in mezzo all'utile verde. Non scerberete troppi steli di fiordalisi: chiusi, oggi, al sole; ma, domani, azzurrissimi: stelle terrestri disseminate fra l'opulenza delle graniture.

E voi, campi di saggina, dai fiori violetti, non temerete il solitario viandante. Squinquinano in mezzo alle saggine i frementi richiami d'amore delle quaglie. A squinquinare sono le femmine: mentre i maschi tardano (al contrario di noi umani) a rispondere con il loro nasale "ma-mao". Fosse, il nostro mondo, il nostro genere, come il vostro, o quaglie, che, femmine, siete voi a richiamare i maschi, mentre a noi, poveri uomini, tocca adoperare mille moine, mille richiami per allettare le femmine spavalde. Antri deserti, anche se le ninfe non fossero mai esistite, noi continueremo a sognarle! Ondeggiavano di veli lungo le rive dei selvatici fiumi? Erano pietose verso gli uomini selvaggi? Fu verità, o fu omerica follia, fu inganno del Poeta cieco, la loro presenza, sul far della notte, lungo le rive dello Scamandro, a detergere, pietose, le ferite degli uomini che cavallerescamente s'erano battuti insieme? Avevano combattuto insieme; ma, al massimo, la lunga asta avversaria aveva spezzato la costola del nemico. Furon, tali, bugie? Oppure ci appaiono tali, al paragone d'armi che superano ogni individuale coraggio possibile ad un mortale? Allora combattevano soltanto i giovani e si combatteva soltanto per le fatali Elene. Oggi si combatte, invece, non si sa più perché: meno che per distruggere un numero eccessivo d'esistenze umane. Eccetera eccetera: ché, ormai — domani come sarà Primavera — vorrò, se mi sarà possibile, dimenticare la nera angoscia. Mi sia - ci sia — possibile dimenticare! Presto!: domani, come sarà Primavera, presto che io chiami il nome del suo Iddio, celestissimo e verde. Presto! : che io me lo raffiguri. Presto: che lo riveda in terra, laddove non giunge il sordo e tetro rumore delle città. È un volto che mal si raffigura da chi non educò se stesso alle beate illusioni della gioventù. È un volto che può passare di memoria. E una presenza che può sfuggire a noi stessi. E uno stato di grazia armoniosa e che scorre dal cielo alla terra.
Il termometro segna dieci gradi sopra zero. Non fa più freddo; non e ancor caldo. Non si ode, intanto, per le strade di campagna, lamento, di voce, alcuno. Non incrinature di nuvole in cielo. Ombre, men che serene, non appaiono fra i canneti. E, domani, quando Primavera sarà passata, torneremo a desiderarla. Mediteremo che si vive trecento giorni all'anno: per gli akri suoi sessanta o poco più. I tuoi denti sono senza carie. Le tue gengive sono asciutte. Il tuo occhio è chiaro. L'aria dolce penetra, oggi, nelle città, anche laddove ieri era odore di muffe, stantio, di vecchie botteghe. Le finestre si spalancano. I vecchi non mormorano contro la fantesca che sta in finestra, giuliva, a sbatter panni. È festa! è festa!. Le facciate delle case assomigliano a candide ali. Il drin-drin del tranvai assomiglia al campanello da Messa. Ognuno, di quei rumori, vari e persistenti, soliti in altre stagioni, urtanti, della Babele cittadina, non recano, oggi, uggia o dispiacere. Ogni rumore è bevuto dalla grand'aria. Reca piacere anche lo "on-dè" "on-dè" "dietro-front" "avant-march" del plotone dei pompieri nel cortile della caserma. Tante sono le foglie degli alberi dei viali che non si possono più contare. Ogni persona che si muove per le grandi piazze non sembra più quella del superfluo ridondare delle figure di ieri. Siamo nel desiderio di non pensare più a nulla. Appare, il ruminio delle idee, barocchismo tardo ed inutile. Poter fermare il motore del cervello! : e potere aderire con il cuore, ed immedesimarsi, nel genio, astrale e terrestre di te, o Primavera!

(Luigi Bartolini, Gli esemplari unici o rari. Novantasei riproduzioni di acqueforti, Gherardo Casini Editore, Roma 1952)