Come faccio allora io per resistere a un assalto vero, continuato,
lungo e che terminerà col silenzio della mia morte?
Se non fosse stata la
mia passione per le acqueforti, io, un bel giorno, insieme col mio cane Liebe
me ne sarei andato a caccia per le rive del Chienti e laggiù, fra i colossali
alberi, avrei finto di essere caduto e che il fucile mi si fosse sparato per
disgrazia. Quindi me ne sarei andato tranquillamente all’altro mondo.
Invece un amore così sorregge ancora, ed è la passione per le mie acqueforti.
Parliamo, allora, di loro.
Sappia chi non lo sa e desidera saperlo, che io sono stato quest'inverno ultimo
premiato a Firenze; inoltre le mie acqueforti (cioè quelle che ho incise prima
del 1930, che quelle esposte qui sono quasi tutte inedite ossia qui esposte al
pubblico per le prima volta) figurano nelle maggiori collezioni italiane e in
molte straniere. Molto ho venduto a privati, meno a Gallerie nazionali ed
estere, o ad enti pubblici, inquantoché io sono di natura, diciamola
alfieriana, e cioè non ho mai voluto inchinarmi ad alcuno.
Nessuno, e qui calchiamo la penna, mi ha mai visto stendere la mano e nemmeno
chiedere. Il mio commercio è stato genuino: mi ha comprato quelli al quale
piacevo, senza lenocinio e senza sforzo.
Ma non è questo che volevo dire. Il cappello cinese è, anzi, stato per il
pubblico. Per i buoni amatori non farò lunghe chiacchere. Per me la critica
d'arte le esegesi le palinodie non contan nulla. La critica favorevole si
ottiene avendo amici: ossia coltivandoseli, lisciandoli, cullandoli di lodi
ecc. ecc.
Io, invece, ho sfottuti tutti quanti. Così come io sono scomunicato per uno
schiaffo che tempo fa diedi a un prete in chiesa, e come ho perduto, per essermi
rifiutato di ricevere in casa mia i padrini di S. V. (non si tratta delle
signorie vostre ma d'un cafone qualunque, d’un ignobile provocatore legale) dicevo:
ho perduto i gradi di ufficiale, le decorazioni al valore guadagnate sul Carso
e sul Piave, medesimamente sono un proscritto, un bandito dalle colonne della
ufficiale semiseria graveolente critica d'arte e di tutto ciò mi compiaccio
meco stesso.
Gli amatori di buone acqueforti sono, però, persone di solito molto
intelligenti: e сioè capaci di porsi dal mio punto di vista che, oserei dire, è
quello dell'angelo. Persone molto intelligenti, e io ho sempre amato gli
amatori di stampe. Essi mi hanno quasi completamente capito e capiscono le
ragioni del mio amore per un topolino morto, per le Farfalle imbalsamate nei
vetrini dei musei (Fig. 2), per le efelidi, per le Conchiglie (Fig. 3 - 4) e per le altre cose dove
altri vedono nulla, ma dove io vedo come uno specchio della mia rinuncia al
mondo pesante, dorato, senza rancore.
Estasi raccolte, estasi limitate ad oggetti minimi; ed allora sortono fuori
dalla mia punta immagini formate chiare e profonde che superano per intensità
la osservazione fotografica. Siamo, a proposito, sempre lì: al senza anima e al
con l'anima.
La somma di tutti i problemi dell’arte e il senza anima o con l’anima.
Disanimato, l’artista può, mediante regole, raggiungere apparenze eguali al
frigido vero; animato l’artista crea, fa un ritratto della sua anima, sia pure
quando incide un topolino morto.
Quel che è difficile è di, operando, aver dell'anima e possedere la virtù di
saper fare. Vero è che in quest'ultimi cinquanta anni abbiamo visto il campo
nettamente diviso in artisti tutto mestiere e artisti tutto fumo ideale, ma per
mio conto io me ne infischio (come dicevo dapprincipio) di tutti e di tutto e
prendo dall'antico e dal nuovo, ovunque trovo cosa che faccia per me. Ne
risulta un'arte, dicono i miei amici, originale e sincera. Ed io torno a
ripetere che è importante conoscere l’artista per spiegare l’opera e trovarla,
facilmente, originale e profonda.
E, in altre mie lastre, quelle che vado a disegnare fuori, lontano, chissà
dove, non c'è di sistematico, di mestiere per il mestiere, assolutamente nulla.
Per esempio l’acquaforte «Paese dell'interno dell'isola» può assomigliare, così
filiforme com'è, ai migliori maestri orientali, ma la assomiglianza è per caso,
non da me voluta, e per giuoco plastico. Quella mattina quando la disegnai io
non pensai minimamente ai maestri orientali, ma per il carattere del paesaggio
e lo stato del mio animo che coincisero evidentemente con quel paesaggio e
quello stato d'animo d'un orientale. Non gioco, non mi diverto a sortire da me
stesso: e quindi posso affermare, con coscienza, la unità della mia opera.
Soltanto che, essendo la mia natura complessa, detta unità può anche non
apparire a un critico miope come il Vittorini di Firenze, il quale preferì a me
il mio caro amico Morandi, al quale Morandi sono stato proprio io quello che ha
tessuto le più fondate lodi.
L'unità di Morandi appare più distinta della mia, ma è anche veroche egli è un po’ monotono ossia allo antipodo dello insegnamento leonardesco: Leonardo, che
non soltanto non si ripeteva ma non terminava quelle opere delle quali, mentre
lavorava, aveva intravisto comein ultimo sarebbero sortite fuori.
Certo e che le mie acqueforti del genere panico ebbro furente non si incidono
colla pazienza, e che mi costano sangue, sudori, tensione nervosa, camminate
pei solleoni e il polverone, abbattimenti, riprese e tempeste.
Io ho combattuto sul Carso e sul Piave: mi sembra che costi più un'acquaforte
che una battaglia: ossia che sia più tempestoso incidere una buona acquaforte,
che partecipare a un'azione di guerra. In guerra basta aver coraggio e qui ci
vuole coraggio e genio. Sfido tutti i sedentari della pittura a fare come me:
correre giorni intieri forsennatamente dietro a un sogno che si o no al terzo
giorno riesco a ritrovare e a fermare sulla lastra mediante linee che sembrano
tremolii guizzi di un sismografo: che sembrano un linguaggio telegrafico ma nel
quale gli amatori sanno che non è discaro mettersi a leggere.
Da Il Milione,
Bollettino della Galleria del Milione, n. 4
Milano, dicembre 1932.