Scrisse bene Cecchi quando, a proposito delle mie acqueforti
disse che «per farle ci voleva, a questi lumi di luna, o un santo come Morandi
o un matto come Bartolini». Matti, del resto, siamo tutti ed anche Cecchi
giacché neppure lui fa il filisteo o il venditore di fusaglie. Ma egli voleva
soltanto dire che le acqueforti rendono nulla dal lato del denaro; e non vi
comprendeva — naturalmente — la serqua degli acquafortai, l'acquafortume e
l'acquaforteria: ossia i burini dell'acquaforte: da tanto, burini, da riuscire
a screditare tale nobile arte. Arte che è, invece, riservatissima; da lasciarsi
ai soli che possiedono il doppio dono d'essere e originali disegnatori e poeti
non da burla e d'accatto. L'acquaforte costituisce, sì, anche un certo tal qual
mestiere: irto di difficoltà tecniche; ma sono difficoltà che l'artista supera
di volo; per forza — o per febbre — d'ispirazione. Viceversa non è un genere
redditizio di denaro. Nemmeno ai tempi di Rembrandt, e neppure per lui,
l'acquaforte costituì una sorgente di denaro. Negli ultimi anni della sua
carriera di «nottiluco stellare» i rami gli vennero sequestrati dai calderai
d'Anversa; che li «utilizzarono» quali fondi di caldai. A Callot, l'acquaforte
costò, più della camicia, la pelle: per avvelenamento cagionatogli dall'orripilante
acido nitrico. L' incisore Tempesta, s'ammazzò: per disperazione materiale,
ossia perché i rami incisi non gli fruttavano quanto gli erano costati. Per
incidere acqueforti s'era ridotto nella più squallida miseria.
Fare acqueforti è dunque — corollario — come scrivere poesie: tutto fumo, amor
di gloria spirituale; niente arrosto: e neppure il risarcimento delle spese
materiali. Frutta (lo ripeto ancora una volta), (e perché giovi a taluni
importuni orecchi) soltanto a chi fa il genere «acquaforte decorativa»,
«acquaforte borghese». Genere servitoresco che mai mi è appartenuto. Frutta
anche a chi s'adatti ad incidere vedutine (tratte, più o meno, dalle foto); o a
chi s'adatti ad incidere piccoli frontespizi, piccoli ex libris, biglietti da
visita o ché. Ma le mie acqueforti non potranno mai piacere che ai poeti, agli
artisti, ai nobili d'animo e di temperamento: vale a dire a quante persone? Se
piacessero alle comuni teste di cavolfiore, io, oggi, potrei essere ricco.
Cosa volete che fruttino la mia «Quercia bella», o i miei «Colibrì», o i miei
«Scarabei», le «Efelidi», i «Topolini», le «Fonti di campagna»? Fonte Canapina,
Fonte Maggiore, Fonte San Giorgio, Fonte San Gennaro: le care, le lunghe, le
giornaliere, picaresche, falliche, itifalliche, piupesche mie passeggiate
solitarie non sempre solitarie — per i campi. Aria tire-lire, catachiaro. Débauche spirituale. Infischiarsene del
mondo che sa apprezzare soltanto i giocatori di calcio. O che sa andare
soltanto al cinematografo. Me ne infischiavo di tale mondo quando andavo, col
mio nobile paltone, avendo nella tasca di destra la fetta erta di lonza o di
salsiccia marchigiana, e, nella sacca di sinistra, una sottilissima lastra di
rame preparata a cera; buona per incidere direttamente dal vero. (Gli altri
incisori — al contrario di me — incidono non facendo calcoli spirituali; ma
facendo calcoli renali nelle quattro pareti del loro piccolo studio). Costoro
ruminano la loro tecnica a freddo: o magari la traggono da me, imitandomi:
tantoché disse bene, anni or sono, un critico quando affermò che da ogni mia
acquaforte può nascere un acquafortista. lo, invece, ho sempre arrischiato e
sono stato originale al cento per cento.
Dicono — fra le altre cose — che abbia compiuto miracoli di
tecnica. E questo può anche darsi. L'acquaforte delle «farfalle imbalsamate nei
vetrini del museo» lo dimostra. Ma non si trattò mai di tecnica che risultasse
fine a se stessa: si trattò d'ispirazione che guidò la funambolica mano.
Dell'acquaforte delle «Farfalle» esistono, intanto, non più di tre esemplari;
nessuno dei quali è perfetto. Il migliore è, ancora oggi, nelle mie mani...
...Intanto diamo un'occhiata a quello che ho già compiuto. Ed a questo punto
confesso che vorrei servirmi, per presentare le mie acqueforti, di meno parole
possibili. Sono acqueforti che parlano da sole: a chi sa leggerle. Vanno sapute
leggere adagio giacché non danno un pugno nell'occhio: come ve lo dà tanta
pseudo-arte contemporanea, manipolata per stupire lì per lì: ma che non lascia
traccia di lungo solco. Per chi non capisce le mie acqueforti da sé, imbastire
trappole di molte parole per spiegarle non è cosa degna di me. E, d'altra
parte, è anche vero che le mie acqueforti hanno una ristretta, ma nobile
cerchia d'estimatori. Coloro che mi stimano sono artisti, scrittori, poeti,
giornalisti. Persone alle quali feci, col dono delle mie acqueforti, dono della
mia amicizia. Andate in casa di Govoni e troverete le mie acqueforti. Andate,
viceversa, da Malaparte e ne troverete altre. L'elenco risulterebbe, però,
lungo e riuscirebbe parziale. Gli stessi miei nemici possiedono le mie
acqueforti (e le tengono appese alle pareti delle loro case; né se ne disfanno:
e mentre dicono che sono un pessimo uomo, soggiungono che «però io feci loro
dono d'una acquaforte»: come a dire che, però, mi stimano. Ossia che in fondo
io sono più generoso della loro maldicenza od invidia). Altri mi sono ancora
grati per antichi doni ed affermano che sono un incisore forse il migliore che
oggi esista in Italia. Però nella cara Italia, una volta così ricca di persone
intelligenti, ancora io non ho trovato un editore che abbia capito quanto
sarebbe charmant impresa pubblicare i
miei racconti, e le mie poesie, illustrate da me, con le mie acqueforti.
Voglio dare anche altre spiegazioni. Povero come sono non ho
mai chiesto nulla ad alcuno, né da alcun riccone ho ricevuto benefici di premi.
(Né era giusto che ne avessi ambito da parte di tali persone, da me mai
stimate, né riverite). Invidie, risentimenti, vendette — notissime imperversano
contro di me; ma furono comunissime, del resto, anche agli artisti del passato.
Diffidare, intanto, degli acquafortai elegantemente pazienti e scemi o troppo
favoriti dai critici e troppo pubblicati, troppo premiati, troppo lodati.
D'altra parte, ecco quale è la vera spiegazione, origine e ragione delle mie
acqueforti: per i campi, al sole, io non facevo soltanto il celeste arcade
delle muse. Qualche volta mi accoppiavo con bellissime ragazze (come sta
scritto nell'antico mio libro della «Passeggiata»
e come sta anche scritto nel recentissimo libro Il mezzano Alipio). Ma, altre volte, invece d'accoppiarmi con
ragazze mi prendeva il solo, l'unico, l'eterno amore: quello per tutte le cose
create: anche se cose all'apparenza da nulla: efelidi, scarabei, farfalle.
Andando in cerca d'ispirazione m'occorreva un motivo per camminare liberamente
lungo le rive dei fiumi, o per sdraiarmi sopra le erbe, o per dormire nei
profondi boschi silenziosi, o per mangiare frutta, insieme agli uccelli. Tutto
ciò costituì più d'un semplice e comune motivo: era un modo d'adorazione.
Provai immensa gioia nell'adorare il mio Iddio e nel seguire la sua volontà . In
essa ravvisai l'istesso mio capriccio.
Girovagando, trovai amore dove molti poveri di risorse spirituali trovano
nulla. Trovai, ed insistetti. Tornai a cercare e tornerò ancora. Conobbi
momenti d'alta, ineffabile, ebbrezza panica; e d'una quasi lucidità angelica.
Fu cosi che incisi le migliori acqueforti. Altre acqueforti non mi riuscirono
bene: ma neppure esse suonarono mai la trombetta accademica, né bararono. Io
non feci mai l'addormentatrice calzetta, né mai m'accontentai d'eleganze
tonali; né mai perdetti tempo a giocar di pazienza per stupire — mediante
certosinità elegantoidi ed accademiche — il pretenzioso (ma sciocco) salotto.
Le mie acqueforti trovarono e trovano la loro ragione
d'essere nel fermare e nell'approfondire visioni. Io quando incido vedo le cose
angelicarsi: e dopo che sono stato due o tre, e talvolta anche dieci ore, ad
accendermi, esaltarmi, direi a battermi come un cavaliere di ventura,
disegnando, sulla lastra, a piena grand'aria, gli occhi mi si abbacinano. Entro
in trance. Mi tremano le vene come a chi compie atto d'amore con donna che ama.
E mentre odo, in me, il sangue che ruscella, riluce intorno a me la speranza
umana della santa pace. (Speranza perduta da parte dei cittadini delle grandi
metropoli). Tutto è chiaro nell'ora del mio Iddio! Ed è il bene di Lui che
diventa mia gioia. E' la Sua grazia che io ricevo come un viatico: un viatico
con cui riesco a sopportare, schivare, superare i mali inerenti alla comune
quotidiana esistenza. La grazia d'Iddio mi remunera di talune mie sconfitte
umane. E sempre m'impedisce di prendere sul serio per esempio un Gastaldi, un
Fiorentino, un Travaso delle Idee.
E' la grazia della mia arte che mi rimunera di quanto io perdo
a contatto della volgarità umana. Volgarità umana alla quale mai ho — ripeto —
appartenuto, anche se, per fatale illusione, qualche volta mi ci sono ficcato
framezzo. Non parliamo poi dei querelisti e delle quereliste: per non trattare
con costoro io preferirò sempre prendermi il torto.
Parliamo d'altro: quando mi trovo in condizione d'ispirazione cambio le parole
in linee, o le linee in parole; quasi inavvertitamente trascorro dall'un mezzo
all'altro. Per me scrivere è eguale a dipingere, incidere, disegnare.
Credo finalmente giusto dare certezza ai collezionisti del grado di raritÃ
delle mie acqueforti. Venne detto, è stato detto, e si continuerà a mentire,
affermando che io traggo, da ciascuna delle lastre incise all'acquaforte, un
numero esagerato (incontrollato) d'esemplari. Ciò è falso. Ciò venne detto —
come si dicono tante cose false contro di me — da parte d'invidiosi. La
tiratura normale degli incisori francesi è di duecento esemplari per ogni
lastra; la mia è — invece, normalmente — di soli sei esemplari. Aprano bene il
buco delle orecchie coloro che null'altro hanno da dire contro le mie acqueforti
se non il ripetere la fandonia «dei tantissimi esemplari». Nessuno ha mai,
quanto me, tratto dalle lastre un numero più limitato di esemplari. Tanto ciò è
vero che su mille acqueforti da me incise circa ottocento risultano esemplari
unici. Soltanto da una trentina di lastre trassi un numero d'esemplari che,
però, non fu mai superiore ai trenta. E solo da pochissime altre trassi un
massimo di cinquanta esemplari. Cosicché i collezionisti che credono,
possedendo le mie acqueforti, di possedere esemplari di illimitata tiratura
invece non sanno che possiedono degli esemplari rarissimi. Ho precisamente
voluto fare stampare — nel dicembre 1951 — un Catalogo, ragionato, di quasi
tutte le acqueforti da me incise — meno le smarrite — perché i collezionisti
possano consultarlo e persuadersi che ogni mia acquaforte costituisce, oggi, un
esemplare o unico o raro.
(Ragionamento sopra le mie acqueforti è la presentazione, pubblicata in catalogo, della mostra di acqueforti di Luigi Bartolini che la Galleria Don Chisciotte di Roma ha tenuto nel giugno 1975. Si tratta di un estratto dell’articolo Presentazione delle mie acqueforti pubblicato sulla rivista Emporium di Bergamo nel dicembre 1940).