Capitolo dedicato alle mie acqueforti di genere "nero"

di Luigi Bartolini

A Pietro Testa, detto il Lucchesino, e che fu disegnatore originalissimo (all'acquaforte) le cose andarono (dal 1611, quando nacque; al 1650, quando si gettò nelle acque del Tevere) assai male: le cose del nostro mondo comune. Egli possedeva troppo ingegno; ed il mondo di troppo ingegno non ne vuole. Bastano, al mondo comune, i soliti mestatori, più gli uomini utili: quali sono i medici e gli ingegneri. Subisce, il mondo comune, le periodiche distruzioni. È il distruttore del suo meglio. Il suo meglio dovrebbe essere la cordialità: il vivere conformandosi alle leggi di natura: che sembrano leggi evidenti (sono - infatti — evidenti nei risultati), ma sono, di loro origine, loro impulso, loro significato assai oscure. Intendo per "vivere secondo natura" ad esempio fare, stamane, una lunga passeggiata oltre Ponte Milvio. E non star qui seduto a tavolino. Evadere dalla Città. Andare a consolarmi nel verde d'aprile (verde pasquale) dei campi. Cercare, fra le erbe prossime alla riva del fiume (fra le lucide erbe d'aprile) i violetti "pingiuovo": grappolini viola e che poi s'aprono a calici rosa: rudimentali immagini dei giacinti coltivati nei giardini. Raccogliere un mazzetto di pingiuovo e portarlo a Luciana. Io non esisto più che per tale decenne mia bambina. Recare i pingiuovo anche a sua madre Anita: e che, andando al mercato, potrà fare acquisto di uova pasquali. Sotto Pasqua, infatti, al ridestarsi della natura le galline depongono più uova che non durante il rigido inverno o nelle estate ossessionanti con il loro soffio di vento infernale.
Ma è in aprile che la natura, ridestandosi, produce con inesausto fervore. Andare — dicevo — oltre Ponte Milvio, verso Due Ponti. Né giungere sino ai Due Ponti; ma, o a piedi, a passo lentissimo, o lentamente in bicicletta (mezzo di locomozione sempre adorabile giacché non "strepe" rumori, non borbotta come i veicoli a motore) percorrere il lungo e l'alto, l'aereo, l'etereo viale di Tor di Quinto, dai frassini bianchi quali candelieri accesi di sole (i naturali candelieri della primavera) e svoltare a sinistra della Caserma (oggirnai semideserta di cavalli e cavalieri). Non più, infatti, a questi amari chiari di luna è possibile la caccia alla volpe; non più incontrarsi con rosse giubbe di nobili cacciatori, non più le Eleonore, non più i D'Annunzio. Un'ombra di controvento domina, fra gli arbusti di basso bosso ed i neri lecceti o le piccole querce, intorno alla già rosea facciata della Caserma. Prendere a destra. Sorpassare una minima pineta. Superare quel tratto di strada irto, dal suo lato verso il Tevere, di gru e di draghe che pescano sabbie da impasto con cemento idraulico (l'ottimo cemento per le popolaresche costruzioni).
Ma perché, a proposito di costruzioni, l'umano si moltiplica? Quando saremo in troppi non troveremo posto nemmeno per metterci a sedere. Quando saremo in dodici sopra l'istesso metro quadrato di terreno, non saremo neppure più liberi di sbadigliare. Tutti — al mondo — ci urteremo (come già ci urtiamo). Ci urteremo senza averne l'intenzione. Per forza, ci dovremo urtare. Per la forza delle consuetudini sbagliate e che ci hanno condotto all'eliminazione della personalità umana, o, meglio detto, alla eliminazione del singolo io. Esisteremo soltanto quali automi; ed allora «addio a Rembrandt, addio a Callot, addio a Goya, addio al povero Bartolini!». (Non ti potrai neppure più grattare la punta del naso senza farti scoprire dagli altri undici! Non troveremo più- addio alla poesia! - parole cortesi per pregare il troppo nostro vicino di voltarsi dall'altra parte, giacché noi dobbiamo fare un certo tal quale bisogno per cui un certo odorino ecc. ecc.). Ma, da banda tali considerazioni!; allunghiamo il passo, diamo una spinta più celere al nostro povero pedale. Non siamo dei Coppi o dei Bartali. Potremmo vincere soltanto una corsa basata a chi va più piano (tanto, un brutto giorno o l'altro, arriveremo alla nostra vera e giusta ed ultima destinazione: che è quella del cimitero). Andiamo adagio, ruminando tali cattivi pensieri. Oppure abbandoniamoli: per amore dell'alma primavera. Un gran silenzio è laggiù fra quelle tamerici basse, bigie ed azzurrine, o fra i vicini scopeti da bassa landa. I loro esili pennacchi alla brezza del mattino sembrano di fumo.
Mi ritorna — intanto — in mente la lettura delle "Vite" del Baldinucci e che feci anche ieri a sera innanzi d'addormentarmi. Baldinucci era un fiorentino del Seicento, accademico della Crusca, scrittore di vite di pittori e d'un libro in cui narra il «Cominciamento e progresso dell'arte degli incisori»; io, ieri a notte, stavo leggendo la Vita del Testa. Occorre, in quanto alle acqueforti di Pietro Testa, conoscerle per ammirarle e per distinguerle dalla serqua (allora folta, di "rami", più della riva, laggiù, del Tevere) degli incisori soliti; canonici, ossia di coloro che stanno al mondo dell'arte, per degli in più, e che non possiedono

alcuna "ragion d'essere". Costoro sono acquafortai delle solite combinazioni; e che si basarono (e si basano anche oggi) unicamente sopra la virtuosità (del resto cosi facile!) del mestiere. Mestieranti mai sono stati cosi numerosi — in tutte le epoche — quanti in tale campo; e che, invece è un campo di selezione della specie: i somari, gli sgobboni, i senza scopo, i "senzatetto spirituale" si riconoscono li per li. I più furono, sono e restano, mestieranti riproduttori (le loro incisioni precedettero — per chi non lo sapesse — gli attuali clichets: fotomeccanici: meccanicità alla quale diede origine il manuale e paziente incisore di mestiere. E fu in ispecie il Bartolozzi - postremo degli incisori — che, attraverso i suoi pointilles, o incisioni ottenute a forza di contigui puntini, diede il lè, apri la via agli abominevoli clichets della fotomeccanica. Fotomeccanica che da ieri (o da ieri l'altro) ha sconvolto — commercializzato — ucciso la così grande — spiritualmente considerata — la così nobile arte dell'Incisione. Arte di cui s'erano compiaciuti Leonardo ed il Durer. Oggi, l'acquaforte esercitata quale mestiere, ha quasi cessato di dar pane agli artisti. Non diede loro più pane dopo l'invenzione del fotomeccanico clichet.

Si dovrebbe, però, perlomeno tenere sempre una candela accesa agli antichi incisori, senza i quali non sarebbe stato possibile l'andare a pensare al commercialmente cosi utile (universalmente cosi povero) clichet. Ché cosi come l'invenzione dei caratteri mobili a stampa aveva — intorno agli anni della scoperta dell'America - rivoluzionato le consuetudini del mondo degli uomini comuni, altrettanto ha fatto, subito dopo la sua apparizione, il meccanico clichet. Ha inondato le pagine bianche dei giornali; (e le ha riempite di volgari vignette). Cosa non ha fatto, non fa, non farà il clichet? Cosa non farà il clichet a colori? L'abbiamo già osservato: si tratta di grandi fotografie riprodotte, meccanicamente a colori. L'altro giorno ne stavo osservando una. Era esposta in una vetrina di libraio. Era una che rappresentava la testa d'un vecchio operaio; una testa grande al vero. Vi si contavano — come nella realtà naturale — i peli del naso, oltre a quelli delle sopracciglia e gli altri del mento (non esclusi quelli delle orecchie). Sembrava di vedere, l'operaio, vivo. Stupidamente vivo, immobile: perché di carta colorata. Invece l'incisione fu (e rimarrà sino a che lo potrà) un'altra cosa. Tutt'altra cosa! Opposta cosa ad ogni banale rappresentazione, banale interpretazione. Resterà l'arte cosi amata da Baudelaire e praticata persino da Victor Hugo — che, per chi non lo sapesse, cominciò incisore e terminò romanziere —. Cara a Paul Valery; ed allo stesso D'Annunzio: che incise, all'acquaforte, immagini di cani levrieri. E’ un'arte — quella dell'acquaforte — più sottile (più spirituale) della pittura. Sì, oggi il quadro dipinto ingombra, con le sue notevoli dimensioni fisiche, troppo spesso la parete. La pittura non trova più posto nelle pareti delle abitazioni comuni mentre l'acquaforte non ingombra. Si può fare un viaggio da Roma a New York recando, con sé, nella cabina dell'aereo, una piccola galleria di bella arte, costituita da una semplice cartella contenente acqueforti di Durer, di Rembrandt, Callot, Canaletto, Tiepolo, Goya; e Wistler e Meryon (e magari di qualche attuale incisore vivente).
Il guaio è che il collezionista d'acqueforti non può essere un Tizio, banalone, qualsiasi, già innamoracchiatosi dei vistosi coloracci di certuni quadroni: decorativissimi. Il chiasso del colore, l'isterica femminilità del colore, l'isterismo ignoto non soltanto a Masaccio ma anche a Piero della Francesca, la barbarie (primitivesca) del colore, il fazzoletto da naso o da collo (coloratissimi) son cose che possono piacere anche agli zulù. Ma ad essi non piacerà mai una acquaforte di Rembrandt: perché mai sapranno leggerla; perché, per leggerla, occorre essere sottili. Essere diventati sottili — fra le mille umane e disumane esperienze — quanto me. Se uno stracciarolo s'imbatte, rovistando in un sacco (piovutogli, per caso, dal cielo o dall'inferno) con una mia carta incisa all'acquaforte, la piglia e, senza meno, la straccia. O se andate a portare le mie acqueforti al pizzicagnolo egli mormora «che sgorbi!» «non son buoni nemmeno per incartare sardelle!». Quando io voglio dimostrare al giudice del Tribunale, che non posso pagare tasse perché sono povero, gli presento le mie acqueforti: ed egli capisce, lì per lì, che, veramente, con tali scartini (più esili dei diplomi della prima comunione, o ben diversamente incise da come vengono incisi i diplomi del Tiro a segno) io dico il vero affermando che ad inciderli ci si rimette denaro, salute, pelle. Ci si rimette salute giacché l'acido nitrico è micidiale; penetra - per capillarità — nelle nostre carni e può anche avvelenare il nostro sangue: e lo avvelenerebbe se noi non fossimo dotati d'angelicità: e d'amor d'aria libera in mezzo alla campagna. La nostra necessità d'essere liberi per concepire i nostri disegni incisi è parallela alla nostra necessità di respirare aria libera e buona. Comunque, a me non importa bruciarmi le mani con l'acido nitrico purché, attraverso le mie incisioni, riesca a conservare a me stesso, di me stesso, il gusto della creazione pura, o il poetico arzigogolare, sopra una lastra di rame preparata a cera, con una scorrente punta d'acciaio: intorno, per esempio, ad una immagine di coleottero o ad un sentiero da usignoli. Creare immagini elette: in un mondo che, viceversa, abbonda di troppe immagini volgari, usuali, banali, non profonde, non cordiali a modo nostro, ed antileonardesche.

Mi sono domandato - tante volte - se valesse la pena di stare a creare immagini sottili, immagini rare, immagini peregrine, «per chi?». Dove sono molti poeti a me eguali, degni di capire le mie acqueforti? Non dico che per il vasto mondo non ve ne siano. Ve ne sono: ma non stanno a mio contatto di gomito. Ve ne sono come le isole che stanno distanti una dall'altra, fra i mari immensi, i deserti oceani. C'è tutto un mondo che se ne infischia delle mie acqueforti. In Italia io non conosco più di trecento amatori collezionisti non soltanto delle mie acqueforti, ma anche di quelle di Rembrandt. Gli altri collezionisti (quelli che s'intendono, ma che non hanno quattrini) sono certamente di più, e contano magari molto; ma, a prescindere da ciò, per me rimane vivo e presente tale assioma: se il mondo umano non fosse composto di poveri paria, di genere comune, e di troppe teste anguste piccine (tali che non si sa perché il Signore le metta al mondo con tanta abbondanza) (- perché, o Signore, metti al mondo gli imbecilli? -) (sono essi che intralciano i nostri intelligenti passi; e, forse, intralceranno - un giorno - anche i tuoi) dicevamo...: se al mondo esistessero intelligenti e cordiali poeti, uno soltanto su diecimila scemi o semiscemi (che mai si domandano un qualsiasi perché: del loro stare dritti in piedi più o meno, e che sempre grufolano a testa bassa fra il putire della carne grassa ed il luccichio del denaro) allora io dividendo i cinquantotto milioni d'abitanti per i diecimila otterrei cinquemila ed ottocento amatori: buoni clienti delle mie acqueforti. Ed allora soltanto, potrei dire che la mia non è soltanto un'arte che reca del bene spirituale a me, ma che lo reca a circa seimila persone. Io vivrei in funzione del bene spirituale recato a seimila persone elette. Invece, esisto soltanto fra illustri e fra ignoti cafoni.
Anche a Rembrandt accadde l'istessa cosa: capirono, delle sue acqueforti, quelle che rappresentavano scene utili ai volghi. Le altre (le vere, le migliori) vennero capite, amate, soltanto da artisti e da poeti. E ben amaro che il nostro mondo comune sia cosi imbecille: e che s'interessi, attualmente, soltanto della partita di calcio al pallone. O che sa compilare soltanto le schedine della Sisal. Povero mondo! È cosi povero che non può far altro. Quindi, io sono più ricco (senza, neppure, un soldo in tasca) di essi tutti. Ma si, è cosi: io debbo consolarmi, trovarmi contento riconoscendo a me stesso, di me stesso, la seguente verità: che il praticare l'arte dell'acquaforte (a me tanto cara) mi valse, e vale, a non farmi mai cadere nella tetra, ultima, finale malinconia di chi, vivendo, non ritrova più, o non rammenta più, lo scopo per cui vive.
Quante volte tu, mondo volgare, mi assalisti con le tue dure e ferrate zampe?, non so come hai fatto a non rompermi i pantaloni! . Fortuna che il mio fisico è stato sempre corazzato dal mio spirito. Ché, grandinando le ire - ora paesane ora letterarie, ora politiche, ora familiari, ecc. — ebbene, sempre io risposi «non fa nulla!», «non importa». «Adesso mi metto ad incidere un'acquaforte e cosi dimentico voi». Riuscii ad inghiottire - perciò— qualche volta, rospi intieri. Dolori - superai — più amari dell'acido nitrico, amico delle mie acqueforti. E più il mondo me ne faceva e maggiormente diventavo sottile e celeste e di tanto che un giorno gli sortirò definitivamente di mano: gli sguscerò di mano simile ad una farfalla: che lascia (però) nel dito che la costringeva una delle sue splendide ali. È cosi; (e non c'è da fare altro). Si tratta d'una sublime rassegnazione, consistente nell'accontentarmi di tracciare segni e di rivederli — passati sotto il torchio — dopo una certa distanza di tempo.

Altri incisori, invece, ingannano il pubblico mostrandosi pulitoni pulitini, pazientissimi; più dei tarli. Depongono, sopra le loro lastre di rame, dei puntini, degli escrementini (vicini vicini) simili a quelli (con rispetto parlando) delle vili mosche. La sanno dare bene ad intendere. Naturalmente, faticano per gli altri. Sgobbano per l'utile. Io, invece — e lo prova la mia acquaforte detta delle Farfalle imbalsamate - conosco il mestiere molto di più, molto più estesamente, di tutti loro. Volendo, io, con il mestiere, saprei giungere a salti acrobatici non di un metro o di un metro e mezzo, ma saprei giungere dove mi pare. So il mestiere meglio degli altri, lo so, si, mi piace, sta tutto bene, ma il mestiere è quella cosa che occorre potersene saper disfare, o non preoccuparsi di esso nel tempo in cui si tiene dietro all'ispirazione. Sino a tanto che tu ti preoccupi del mestiere rimani sempre scolaro.
Per esempio, quando scrivo; quando scrivo penso forse alla grammatica? La conosco in miglior modo di mio padre (che conosce i dialetti dell'antica Grecia) giacché sono nato con la grammatica in mano (forse mio padre mi mise al mondo fra un intervallo di grammatica e l'altro) ; ma, oh la grammatica! Bisogna possederla nel sangue, ma dimenticarla quando, scrivendo, si tiene dietro alla filata corrente che si chiama (o una volta si chiamava) "ispirazione"! Terminerete, voi che scrivete correttamente insulsi, che non saprete più se siete vestiti o se siete lombrici, o se siete ancor vivi o se siete già morti; voi che non credete neppure ai mezzi mattoni cotti! Io, invece, credo a tutto quello che ho fatto, giacché tutto ho fatto per candido estro. Io sono stato, sotto un tal senso, l'uccello più libero dell'universo! Incisore, disegnatore originale, non soltanto non ho voluto mai servire alcun Cosimo II, ma mai ho voluto incidere un diploma, né una carta da visita, né una partecipazione di matrimonio. Mi sono guadagnato il pane con altri stenti: onesti ed anche essi nobili. Ma, dopo che avevo procurato, a me stesso, ad Anita, a Lucianella, il necessario per esistere alla bene e meglio, eccomi, oh finalmente, libero; e, finalmente, "io". Poi, andate a schiacciare - voi, livellatori! - un simile io: se vi riesce. Voi potrete schiacciare gli schiavi; ma neppure agli schiavi potrete impedire di pensare alla divina follia della Creazione, mentre essi sospingono la ruota, o voltano la macina. Dunque, tu, uomo, o maledetto diavolo che tu sia, non riuscirai mai ad estinguere il fuoco generatore ed animatore delle Arti. Corre, un tale fuoco, più rapido e più libero del volgare amore della carne. Anzi, la libertà vera, quella spirituale, esiste soltanto attraverso le arti; e sono veramente liberi soltanto gli artisti: queste nobili creature oggi battute dal destino di un'epoca bastarda e che non sa più, neppure essa, cosa vuole.
Ieri, noi artisti eravamo i re dell'universo; oggi contiamo, fra le masse volgari, più nulla. Né i nobili blasoni più ci possono assistere, aiutare, proteggere, difenderei come ci difesero (con molto loro onore!) nei tempi del Passato. Oggi, si mette al mondo soltanto carne. Non soltanto è in pericolo ogni credo d'artista, ed ogni sereno, religioso, concetto del perché si sta al mondo, ma è in pericolo l'istesso senso d'umanità. E per cui noi siamo diventati come gli ultimi soldati d'un glorioso esercito defunto; o in rotta. A noi tocca tenere la linea mentre i greggi comuni l'abbandonano. A noi tocca tenere la linea pura, mentre essi sgavazzano, sgambettano, si divertono nella losca fossa dei vivi che si chiama la città.
Ma ecco perché io non ho mai voluto (come han fatto altri incisori) servire il pubblico, ed entrare nei suoi gusti, assecondarlo nei suoi gusti. E mi è sempre importato poco, o nulla, che si potesse dire, d'una mia acquaforte, «si c'è un beli'effetto tonale, un beli'effeno decorativo, sta bene alla parete!». Tutto si può dire, d'ogni mia acquaforte, meno che «è un soggettino carino e piacevole». (E quindi c'è chi c'entra e chi non c'entra).
Tuttavia, uno, se è incisore, non pensi mai ad uccidersi. Non faccia come fece il nervoso, povero e grande, Pietro Testa. Era il migliore incisore del suo tempo. Ma pochi lo capivano, giacché egli incideva non per mestiere o per commercio (commercio d'immagini di principi, imperatori, potenti d'altro genere ecc. e di tutte le altre immagini sopra le quali soprassiede, oramai, il vile clichet) incideva più che per gli altri, per sé. Ed è naturale, è fatale, che chi operi per suo gusto, senza offrire alcun bene al miope mondo comune, non trovi modo di addentellamento, o di materiale guadagno, fra sé ed il mondo. Già sin dai tempi del Testa s'era spalancata la grande crisi che sta per uccidere il più puro modo d'esistenza spirituale. I versi, le poesie non danno più pane. Anzi, forse, fu sempre cosi. Ma è certo che, ormai, la crisi spirituale appare spaventosa. Tutti noi, poveri spirituali, siamo costretti a dieci mestieri giornalieri; diversi, ed alcuni quasi lontani dallo charme poetico: per sbarcare — e modestamente — il lunario.
In una bella sera (anzi fu una brutta sera dell'anno 1651) Pietro Testa, l'etereo incisore, l'incisore ismagliantissimo del Giardino di Venere, del San Gerolamo, del Sant’Erasmo e di una serie che egli chiamò Idee, Pietro Testa, il precursore del Canaletto e del Pitteri, e che già aveva aperto le porte all’ acquaforte moderna (non più acquaforte di solo mestiere od anonimi tratti incrociati, ma acquaforte di linee vibrate) (vibrate come dalla punta d'un sismografo d amore) miseramente si uccise.
Prima d'uscire da casa lasciò detto che «questa sera non sarebbe ritornato» e perciò che i suoi umili cari non gli avessero a lasciare la colazione. Poi andò a picchiare— essendo a cortissimo di denari — alla porta d'un suo protettore: che, però, non era in casa (o, se c'era, gli fece dire di non esserci). «A questo segno sono condotte le cose mie da non trovare io, più, al mondo, persona che mi soccorra». Anzi, egli commentò la sua triste sorte nel modo seguente «da non più trovare chi soccorra un uomo come me». Quindi girovagò (irti i suoi pensieri di nebbie e di malinconie) per le serotine rive del Tevere. Forse soffriva anche di gotta (malattia per la quale davvero vien voglia di morire). Ma, oggi, tale malattia non è più quella, inguaribile, dei tempi di Galeno e neppure di quelli del Testa. Oggi, per chi non lo sapesse, la gotta si guarisce usando specifici che non nominerò per non fare gratuita reclame ai loro esimi produttori. La gotta trafigge come con aculei, intorbida le vene con altri ottusi e piatti dolori. Non fa dormire dalle dieci ore di notte alle ore tre del mattino seguente; e, quant'è vero che a me è passata!, io la conosco sin troppo bene! Ai tempi del Testa non esistevano specifici contro un'infermità cosi angosciosa e crudele. Girovagò, egli uomo già cosi caro alle Muse lontane, ma cosi abbandonato dai vicini umani, sino a tarda none. Quindi ad un certo momento rapidamente scavalcò il parapetto del fiume e si gettò nel vortice della corrente «con tutti i panni». Lo ritrovarono, di buon mattino, cosi, vestito dei suoi panni, fradicio di acque che lo avevano soffocato ed ucciso.
Ma, per conto mio, non occorre ammazzarsi. Va bene che ho molti nemici e che il mercante d'arte milanese x y ha emanato, contro di me, una circolare a cagione d'un certo mio scritto — scherzoso! — in cui narravo d'una svendita, all'asta natalizia, d'infimi quadri di bisognosissimi pittori; ma, a quanto sembra, non si può nemmeno più descrivere un'asta d'infimi quadri senza dar fastidio a qualche strozzino. Altri mercanti milanesi hanno, però, (ad onor del vero) protestato a mio favore contro il circolarista sbruffone; ma, protesti o consensi a parte, state sicuri che io non mi uccido! Vero è che neppure possiedo il genio d'un Pietro Testa; ma comunque, io vivo e vivrò sempre beatissimo a motivo d'una lastra incisa o a motivo d'una rifocillatrice passeggiata ai Due Ponti.

(Luigi Bartolini, Gli esemplari unici o rari. Novantasei riproduzioni di acqueforti. Gherardo Casini Editore, Roma 1952)